Usa. Addio allo scrittore Philip Roth. Nei suoi romanzi la deformazione morale della società americana

di redazione 23/05/2018 CULTURA E SOCIETÀ
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E' morto lo scrittore Philip Roth, gigante della letteratura contemporanea americana, aveva 85 anni. Uno degli scrittori più importanti ed influenti del ventesimo secolo che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della letteratura americana. Aveva 85 anni, si è spento nelle scorse ore in un ospedale di New York in seguito ad una insufficienza cardiaca, ha confermato il suo agente Andrew Wylie.

Autore tra gli altri di 'Pastorale Americana', per cui ha vinto il Premio Pulitzer nel 1998, e di 'Lamento di Portnoy', è stato uno scrittore prolifico; il suo lavoro è considerato un'esplorazione profonda e critica dell'identità americana. Sesso, religione e morale i suoi temi ricorrenti, in una produzione vasta e punteggiata da figure letterarie iconiche, da David Kepesh ad Alexander Portnoy.

Nato in New Jersey nel 1933 in una famiglia della piccola borghesia ebraica, Philip Roth ha esplorato a fondo proprio quella sua storia familiare, la dimensione ebraica incastonata nell'America contemporanea. Ne ha sviscerato vezzi e miti in un viaggio profondo reso possibile da un realismo senza compromessi insieme con un registro comico che nella produzione di Roth diventa anche chiave letteraria. Fino ai temi 'difficili' e a tratti crudi: il desiderio, le ipocrisie, veicolati da una originalità che rende il suo racconto unico.

Esordì nel 1959 con "Addio Columbus', poi il primo grande successo dieci anno dopo con 'Il lamento di Portnoy ', che oltre al successo e alla notorietà gli attribuì anche l'etichetta di scrittore 'scandaloso' per come osò sfidare il pudore affrontando il tema del piacere con un registro tragicomico che consegna la figura di Alexander Portnoy all'Olimpo della creazione letteraria. Con 'Pastorale Americana', del 1997, aprì un capitolo molto più esplicito nella sua osservazione politico-sociale, un lavoro che proseguì sulla stessa linea con 'Ho sposato un comunista' e 'La macchia umana'. Nel 2009 annunciò la fine della sua carriera da romanziere: fino ad allora aveva pubblicato oltre 30 libri, tradotti in molte lingue.

Il romanzo che gli fece ottenere il grande successo fu Lamento di Portnoy, pubblicato nel 1969: tragedia e commedia personale, raccontata dal protagonista Alexander Portnoy al proprio analista, intorno ai tentativi di sfuggire a un’oppressiva famiglia ebraica e alle proprie nevrosi sessuali,  con ampie e allora “scandalose” digressioni sul tema della masturbazione. Nessuno aveva mai scritto niente del genere, riuscendo a rappresentare quel mondo e quei desideri con un linguaggio simile, e il libro, come si dice in questi casi, divenne un best seller e spaccò la critica. Una recensione del 1969 di Josh Greenfeld sulla New York Times Book Reviewne riassume le ragioni del successo: era «il romanzo che ogni scrittore ebreo-americano ha cercato di scrivere in un modo o nell’altro dalla fine della Seconda guerra mondiale».

Roth veniva infatti da una famiglia ebraica di prima generazione – i suoi genitori erano della Galizia, una regione tra Polonia e Ucraina – e ha rappresentato e riflettuto costantemente nei suoi libri sull’identità ebraica, l’antisemitismo e su cosa significasse essere un ebreo americano. Quasi tutti i suoi protagonisti lo sono, da Alexander Portnoy al suo alter ego e personaggio ricorrente Nathan Zuckerman, ma il libro che ha affrontato più direttamente il tema è Complotto contro l’America (2004), in cui Roth immagina uno stravolgimento della storia: alle elezioni per la presidenza americana del 1940 viene eletto, anziché Roosevelt, Charles Lindbergh, che trasforma repentinamente gli Stati Uniti in un alleato della Germania nazista. Il libro ha riacquistato una certa fortuna dopo l’elezione alla presidenza di Donald Trump.

Nel corso della sua lunga carriera, ha scritto Charles McGrath sul New York Times, Roth «assunse molte forme – principalmente versioni di se stesso – nell’esplorazione di ciò che significa essere un americano, un ebreo, uno scrittore, un uomo. […] E più di ogni altro scrittore del suo tempo esplorò instancabilmente la sessualità maschile». Scrisse di moltissime cose, per esempio dell’identità ebraica e dell’antisemitismo, ma anche della vita del quartiere Weequahic di Newark, dove crebbe, che nei suoi scritti «divenne una specie di Eden scomparso: un luogo di orgoglio borghese, frugalità, diligenza e aspirazione».

Roth vinse moltissimi premi letterari, tra cui due National Book Award per Addio, Columbus e per Il teatro di Sabbath, e il Pulitzer per la narrativa per Pastorale americana, ma non vinse mai il Premio Nobel, una cosa che nel corso degli anni è entrata nell’immaginario comune per significare una sorta di “ingiustizia”. Nel 2010 l’allora presidente statunitense Barack Obama gli consegnò la National Humanities Medal, la più importante onorificenza americana per chi ha ampliato la conoscenza della natura e dello spirito umano.

Dai suoi romanzi sono stati tratti numerosi adattamenti teatrali e otto cinematografici, tra cui La macchia umana, diretto da Robert Benton nel 2003, e il recente American Pastoral, il primo diretto dall’attore scozzese Ewan McGregor.

Roth si sposò due volte: la prima nel 1959 con Margaret Martinson, una donna divorziata con una figlia che, raccontò Roth, l’aveva convinto di essere incinta di lui. Si separarono nel 1963 ma lei gli rifiutò il divorzio e continuò a tormentarlo fino a quando morì in un incidente stradale nel 1968, un evento che ritorna spesso nelle opere di Roth. Nel 1990 si sposò con la sua compagna da tanti anni, l’attrice Claire Bloom, da cui divorziò nel 1994. Lo scorso gennaio aveva parlato della vecchiaia e della morte in un’intervista a Charles McGrath sul New York Times:

«È stupefacente trovarmi ancora qui, alla fine di ogni giornata. Andare a letto di notte e pensare sorridendo che “ho vissuto un altro giorno”. E poi è stupefacente risvegliarsi otto ore dopo e vedere che è la mattina di un nuovo giorno, e sono sempre qui. “Sono sopravvissuto a un’altra notte”, penso, e mi viene da sorridere di nuovo. Vado a dormire sorridendo e sorridendo mi risveglio. Sono molto felice di essere ancora vivo. Da quando va così, di settimana in settimana, di mese in mese da quando sono andato in pensione, mi è nata l’illusione che quest’andazzo non finirà mai, anche se ovviamente lo so che può finire da un momento all’altro. È come un gioco che faccio giorno dopo giorno, un gioco dalla posta molto alta che per ora, contro ogni previsione, continuo a vincere. Vedremo quanto andrà ancora avanti la mia fortuna»


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